Enzo Ciconte, La
grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio, Laterza Editori, Bari
2018, pp. 278, € 20,00.
L’autore tratta del
brigantaggio, cui si riconducono i tre conflitti del 1799, del 1806-1812 e del
1860-1870, come di vera e propria guerra civile, anche se innestantesi su un
“sottofondo” di criminalità comune (spesso adornata di romanticismo) ma in cui
prevalgono ragioni religiose, politiche e socio-economiche. Mentre la
narrazione ufficiale del brigantaggio, a cominciare dalla circolare Ricasoli
del 24 agosto 1861, può riassumersi in tre parole: depoliticizzare, minimizzare
e criminalizzare il nemico, cioè il brigante. Cui non è riconosciuti il
carattere (né diritti) dell’hostis,
ma è latro e quindi criminale. E se
ne nega così il carattere “pubblico” e politico che costituisce la scriminante
tra nemico e criminale, come scritto già nel Digesto (L,16,118).
Ciconte si interroga
specialmente sui militari incaricati della repressione “Chi sono gli uomini che hanno dato la
caccia ai briganti? da dove provengono? Dal Piemonte e da altre regioni del
Nord o ci sono anche meridionali che imbracciano il fucile in una lotta
fratricida che ha i caratteri d’una guerra civile?”, onde prosegue “In primo
piano ci saranno coloro che hanno guidato ed effettuato la grande repressione.
Sono loro i protagonisti assoluti. È di loro che parla questo libro, sia quando
guidano la caccia, ordinano fucilazioni, saccheggi, stragi ed incendi,
imprigionano e perseguitano parenti e familiari dei briganti”; nonchè sui conflitti
“briganteschi” hanno, in tutti i casi, anche il carattere di lotte sociali tra cafoni, per lo più legati ai Borboni, e galantuomini (borghesi) prima
“giacobini” e poi liberali.
L’autore si chiede, data
la frequenza e la ripetitività delle azioni repressive se queste “sono atti
individuali di uomini particolarmente feroci o sono la spia di un modo
d’intendere la repressione che coinvolge in una medesima e condivisa cultura i
vertici militari e anche le autorità politiche di governo, locale e nazionale?”
La risposta che può dare
il recensore è che in, tutti e tre i conflitti, il carattere “assoluto” della
guerra, teorizzata da Clausewitz, e particolarmente evidente in quelle
partigiane, fa si che le parti in
lotta non applichino né i
temperamenti derivanti dal riconoscimento al nemico del carattere di justus hostis, né le garanzie di una
legalità (nullum crimen sine lege,
giusto processo e così via) garantite al criminale.
In sostanza nessuna
norma interviene a limitare la violenza e l’ “irregolarità” del confronto.
Quando questa c’è, viene per lo più violata dalle stesse autorità militari
incaricate della repressione, come attesta Ciconte.
In sintesi il
brigantaggio è stato, il contrario della guerra nei merletti (guerre en dentelles) di westfaliana
memoria, e “l’avanguardia” delle guerre parigiane che il XX secolo (ma anche il
XXI) ha praticato intensamente, come
scrive Carl Schmitt nella Theorie
des partisanen.
Teodoro
Klitsche de la Grange